Per non dimenticare: le vittime in Iraq sono anche i sopravvissuti

di Redazione 0

Affinchè la nostra memoria non sbiadisca e si mantenga sempre alta la guardia per il dolore che ogni guerra comporta, presente e passata e anche se vi si corre il rischio di apparire anacrostici, desideriamo dare qualche informazione, riguardo i problemi di ordine psicologico che la guerra in Iraq, comportò qualche anno fa.

Le statistiche di allora parlarono chiaramente: più di un terzo dei soldati americani rientrati in America dal fronte iracheno, non fu in grado di arginare da solo, l’immensa sofferenza che il conflitto comportò ed ebbe bisogno di ricorrere all’aiuto dello psicologo.

E’ possibile consultare ancora oggi, i risultati dell’indagine realizzata dal Pentagono, infatti questi furono pubblicata sul Journal of the American Medical Association.

Le dichiarazioni all’epoca non furono affatto confortanti, infatti Charles Hoge, coautore della ricerca e colonnello dell’istituto di ricerca Walter Reed Army, all’epoca affermò che

Non siamo sopresi dai dati messi in luce dall’indagine e incoraggiamo tutti i soldati di rientro dall’Iraq a sottoporsi a controlli preventivi e riabilitativi.

I pregiudizi poi, sono lenti e duri a morire, allora (esattamente come accadrebbe oggi), molti militari evitarono di sottoporsi ai controlli  proprio per il timore di essere additati ed etichettati come “malati di mente“.

l’inchiesta, mise in luce come il il 12% degli oltre 220 mila soldati riportarono problemi mentali. La percentuale addirittura risultò superiore all’11 dei reduci dall’Afghanistan e all’8,5% dei veterani della Bosnia

Inoltre la dottoressa Seal ha sostenuto che

la maggioranza dei militari che hanno prestato servizio in Iraq o in Afghanistan sono stati esposti a combattimenti armati di alta intensità e a minaccia cronica di ordigni artigianali” quando è noto che solo il 30 per cento dei militari appartiene a reparti di combattimento e opera sulle strade e sui campi di battaglia.

La domanda che il Governo dovrebbe porsi, è dunque come inserire nuovamente nel tessuto sociale, lavorativo e comunitario, persone le cui fratture dell’anima sono molto profonde e difficilmente si risaneranno. Questa guerra si è spenta non pochi anni fa, ma tali individui, in molti casi, vivono e vivranno ancora per tanto tempo, la quotidianità con la sensazione dell’irrimediabiltà dell’esistenza.

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