Non c’è memoria senza tenerezza

Bisognerebbe parlare, più spesso e con emozione, di un sentimento: la tenerezza. La tenerezza è alla radice  di ogni delicatezza, amicizia, forma d’amore, impresa. Di ogni rivoluzione del cuore. “Bisogna essere duri” scriveva Ernesto Che Guevarasenza perdere la tenerezza“. Così i bambini sono teneri per loro stessa essenza e lo sono anche quegli adulti, maturi utopisti che, come Oscar Wilde, dichiarano: “Una mappa del mondo che non preveda il Paese dell’utopia non merita neppure uno sguardo“. Infine, non c’è “colore del grano“, per dirla con Saint Exupéry ovvero non c’è memoria senza tenerezza. Non c’è, comunque ricordo d’infanzia, d’adolescenza, di giovinezza o di un passaggio importante della nostra vita che, rivisitato per conoscere meglio noi stessi, per indagare le nostre eperienze e i vissuti delle nostre relazioni con gli altri (da quelli più intimi a quelli che, pure, ci hanno fatto soffrire), non contempli, al fondo, una certa, dovuta, inevitabile tenerezza. Verso noi stessi, verso quelli che abbiamo amato o che, in qualche modo, anche dolorosamente, ci hanno coinvolto.

Così, proviamo tenerezza verso quello che, magari, poteva essere e non è stato (e, allora, la tenerezza si fa nostalgia). O, meglio e ancora, il sentimento della tenerezza ci coglie verso ciò che è accaduto, siamo stati o di come siamo, ineluttabilmente, ormai diventati. Teneri noi! Allo stesso modo, teneri sono tanti ricordi al pensiero dei quali non rinunciamo mai; teneri gli appunti che conserviamo; le lettere inviate e ricevute; i nostri disegni e quelli dei nostri figli; tenere le musiche che riascoltiamo; teneri i vecchi peluche che non abbiamo mai gettato via e i vestiti fuori moda che conserviamo perennemente appesi negli armadi.

Miglioramento personale, l’importanza dell’autocritica

 Cos’è l’autocritica? Wikipedia la definisce “l’atto di esaminare e giudicare il proprio comportamento al fine di migliorarlo“, eppure quando sentiamo parlare di autocritica tendiamo ad associarlo ad aspetti che poco hanno a che fare con il suo vero significato, come la paura di essere giudicati; al contrario l’autocritica è un ottimo strumento per migliorarci sotto diversi aspetti.

La meditazione come promozione delle funzioni celebrali

 

Una delucidazione alquanto interessante quellache in questi giorni sta girando in ambito psicologico. Basterebbero solo 11 ore per mettere in pratica una qualche tecnica meditativa efficiente, che andrebbe a modificare strutturalmente il nostro cervello aumentandone l’efficienza. La nuova tecnica di aumento dell’efficienza e regolazione del comportamento in base ai propri obiettivi si chiama IBMT, che sarebbe Formazione Integrativa Mente-Corpo. Il team internazionale di ricerca della Dalian University of Technology e dell’Università dell’Oregon guidati dal dottor Yi-Yuan Tang e lo psicologo Michael I. Posner, in Cina, l’avrebbe sperimentata partendo dalla Medicina Tradizionale Cinese nel 1990.
Questa pratica ha impegnato oltre tutto lo staff psicologico, anche 45 studenti dell’università dell’Oregon che sono stati allo stesso tempo trasformati in insegnanti, oltre che aver fruito la tecnica da “pazienti”. Si tratta di 28 maschi e 17 femmine. Dopo la “somministrazione” della cura meditativa, i soggetti sono stati suddivisi in due gruppi ed hanno avuto fatta una formazione per l’IBMT.

L’invidia è stupida

 

Quanta stupidità si annida nell’invidia. Di cosa mai dovremmo essere invidiosi? Cosa pretendiamo da noi stessi? Perchè alcuni aspirano ad assomigliare, quando addirittura non scimmiottare talenti, atteggiamenti, modi di essere che non gli appartengono, di altre persone, rendendoli infelici e frustrati?

Per intenderci: non tutti abbiamo l’avvenenza dei divi del cinema, eppure nella nostra esistenza di certo abbiamo fatto cose di cui poter essere soddisfatti. L’invidia dunque, va sempre di pari passo con la mancanza di autostima. Si prova questo sentimento perché non si è abbastanza convinti del proprio carattere. Così si svalorizza se stessi, un’operazione priva di senso. Infatti, se l’invidia è basata su una competizione fisica bisogna assolutamente relativizzare l’importanza di questa componente.

La gelosia è motivata dall’insicurezza

Avete presente le ricette di cucina, quando compare l’abbreviazione professionale “q.b.”, ovvero: quanto basta? Ecco, così dovrebbe succedere anche con la gelosia: in ogni storia d’amore dovrebbe essercene quanto basta. Perché questo sentimento è come una borsetta: è un accessorio utile e sempre presente in un rapporto (è inutile negarlo o pensare il contrario), ma non si può averne troppe. Infatti, un pizzico fa sentire all’altro di essere amato, gli dà la percezione di essere importante e prezioso, di essere indispensabile.

Sempre questo pizzico lusinga il partner, che davanti a un piccolo interrogatorio mostrerà biasimo, ma in cuor suo saprà che il sentimento dell’altro è vero, forte e profondo. Il vero problema? Riuscire a misurare questa dose, questo “quanto basta”. E non è affatto facile, perché può mutare e dipendere dalle proprie fragilità e dai propri bisogni. Ma c’è un confine da non superare. Quello della libertà dell’altro. Certo, la gelosia è un sentimento legato a un senso di possesso, ma non deve, mai e poi, arrivare a compromettere l’autonomia e l’indipendenza di chi si ama, che non può essere rinchiuso nel santuario esclusivo della coppia.

Non inimichiamoci i vicini di casa

Si leggono molte storie sui vicini di casa. Alcune tragiche, altre comiche. Altre ancora raccontano storie di pura indifferenza: persone che vivono nello stesso condominio e che, se si incontrano per strada, non si salutano perchè non si riconoscono. Questi rapporti sono sempre delicati. Prima o poi capita che si debba interagire per qualche ragione ed è bene poterlo fare in assenza di conflitti.

Significa che bisogna per forza intrattenere relazioni con queste persone? No ovviamente. Può capitare di diventare amici del vicino di pianerettolo, con cui ci si scambiano piccoli favori o qualche invito a cena. E’ sicuramente un aiuto perché, nelle grandi città, avere qualcuno su cui contare è una risorsa preziosa. Ma in generale si possono instaurare buoni rapporti pur mantenendo le distanze.

La religione aiuta a sopravvivere ai trapianti

 

La frase del titolo potrebbe essere fraintesa e quindi è giusto mettere subito in chiaro qualche informazione derivante da studi recenti. Lo studio di cui parliamo è italiano ed è stato svolto dall’Istituto di di fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa (Ifc-Cnr), in collaborazione con il dipartimento di Trapiantologia epatica dell’universita’ di Pisa. Credere nella religione aiuterebbe a sopravvivere maggiormente in caso di trapianto.

La ricerca è stata pubblicata anche sulla rivista specifica Liver Transplantation ed i dati sono chiari. I pazienti convinti nella religione che hanno creduto di superare “l’ostacolo” del trapianto sono sopravvissuti per un totale di 93,4%, con una mortalità di soli 6,6%. Coloro che non ci credono sono sopravvissuti solo nel 79,5% dei casi.

Abbiate il coraggio di chiudere le vostre storie d’amore quando vi rendono infelici

Per riuscire a mettere la parola fine a un rapporto ci sono vari modi: in realtà, in alcuni casi più che il coraggio è importante trovare la motivazione. Per fare questo è necessario staccarsi dalle resistenze e ragionare sul perchè è bene agire. E, soprattutto, sulle conseguenze negative del non chiudere quella relazione.

Per esempio, se a voi la storia sembra ormai esaurita e non la chiudete, facilmente accadrà che a causa del logoramento del rapporto si passi dal non amarsi al non volersi nemmeno più bene. Dopodichè il nostro inconscio, per far sì che accada ciò che vogliamo, ci spingerà a concentrarci sui lati negativi del partner portandoci a detestarlo, odiarlo e quindi a litigare solo per costringerci a lasciarlo.

Bisogna tenere presente che quando le nostre scelte sono dettate dalla paura di soffrire o di far star male l’altra persona si sbaglia comunque. Perchè continuando la relazione non risparmiamo dolori a nessuno. Anzi: aspettare e rimandare inasprisce l’atmosfera già pesante.

Talassoterapia: un toccasana per muscoli e circolazione

 

In periodo estivo, per chi si riesce a concedere una vacanza al mare è giusto parlare di qualche pratica svolgibile proprio nelle località turistiche italiane. Oltre a parlare del bene del sole e dello iodio che ci offre il mare, con la sua acqua salata, oggi parliamo anche di talassoterapia. Chiariamo prima di tutto le idee per chi ancora non avesse chiaro il tipo di terapia.

Si tratta di una metodica conosciutà già dagli antichi tempi perchè il nome deriva dal greco thalassa che vuol dire mare e terapia che vuol dire trattamento. Però la storia vera del trattamento come inteso oggi parte nel 1700 grazie al medico di origini inglesi di nome Richard Russel. Con questa terapia oggi (molto amata), il mare viene sempre più visto come fonte di bellezza e benessere grazie all’insieme di oligo-elementi minerali e vitamine indispensabili che l’organismo di ognuno accetta di buon grado.

La gioia ha un risvolto etico

La parola gioia si collega al termine greco ganos, che significa splendore, luccichio. Infatti, ancora oggi usiamo espressioni che si trovano in Omero, come “la gioia che risplende sul volto” oppure “occhi che brillano di gioia“. Questa emozione ha la caratteristica di risplendere sulle persone che la provano, di illuminarle. E si dice anche “esplosione di gioia”, perché è qualcosa di forte, potente come uno scoppio e incontenibile. Da questa analisi semantica, si può comprendere che la gioia è una manifestazione della felicità, è la dimensione pubblica della felicità.

E mentre quest’ultima è un sentimento interiore, anzi un bene duraturo che si conquista solo con la virtù, la gioia è la sua manifestazione esteriore. Una manifestazione che porta con sè festa ed allegria. Ma anche calma, perché ci si compiace del proprio stato, si sente una sorta di equilibrio e di pace, con se stessi e con il mondo che ci circonda.

Il bene ed il male, due facce della stessa medaglia

 

Oggi vi parliamo di un tema che prende spunto dai testi di Erich Fromm, psicoanalista tedesco di origine ebraica, che studiava le condizioni di individui normali ed uguali in tutto e per tutto, se non per quello che avevano dentro: il bene ed il male.
Oggi, con gli studi avanzati in sociologia sembra essere più semplice la comprensione tra i due concetti, riuscendo a portare degli esempi plausibili di questi due concetti derivanti non solo dalle quattro mura domestiche, bensì, anche dai casi che ci presenta la televisione. Ma analizziamoli entrambi per cercare di capirne qualcosa in più dal punto di vista del valore degli individui.

La vergogna non è sempre negativa

Si pronuncia la parola vergogna e subito arrivano alla mente idee negative. Si pensa alla vergogna di chi ha commesso un errore, anche molto grave, e viaggerà a lungo accompagnato da un pesante senso di colpa. Eppure, questa emozione, non è sempre negativa.

Perché può essere una bussola che ci dà una direzione: se si prova vergogna per un’azione compiuta, per esempio per aver tradito la fiducia di un amico o deluso le aspettative di chi si ama, vuol dire che questo comportamento è andato contro la propria morale, ha infranto quelle regole profonde che fanno parte di sè. E questo dolore farà da monito per evitare di commettere ancora uno sbaglio simile. Insomma, la vergogna assomiglia a una specie di fitta, che risveglia la propria etica e aiuta ad agire meglio. Un tempo, poi, c’era la vergogna che sentiva chi era additato perchè diverso, per il colore della pelle, per i suoi ideali o per la sua storia.

L’amore eterno non esiste più

 

Se è vero che un tempo i giovani sognavano solo l’amore eterno, uomini o donne che siano, sembra proprio che ai tempi moderni le abitudini siano cambiate. Fa’ che la libertà dei giovani è cambiata, fa che sono cambiati i programmi in televisione ed i modi di vivere, tra le ambizioni degli adolescenti fino ai 30 anni, il concetto di amore eterno è scomparso.

A ricordarcelo anche l’intervista fatta tempo addietro dal giornale “La Stampa” al sociologo italiano per eccellenza Francesco Alberoni, che approfittò della stessa per parlare del suo libro “Innamoramento e Amore“. Nell’intervista, si parlò proprio dell’oggetto del suo testo e soprattutto del nuovo concetto che i giovani hanno di relazionarsi a quello che era per i nostri genitori il concetto del per sempre insieme. Ne fuoriesce qualcosa che fa comprendere come la nostra società sia cambiata e come il concetto del “per sempre” seppur esiste è molto diverso da quello che vivevano i nostri nonni o ancora i nostri genitori.

Pensiamo alla tristezza come ad una risorsa

La tristezza fa pensare immediatamente alle stagioni. Tra tutte, assomiglia all’autunno, perché il tono dell’umore va in caduta libera, come il sole e le foglie. Ma è un’emozione decisiva perché riesce ad azzerare la nostra identità e a portare un nuovo modo di essere, se la si vive al meglio, se la si accoglie. E proprio qui sta il grande dilemma contemporaneo, perché noi ci ostinamo a combatterla a suon di domande inutili. O, addirittura, ad annullarla a colpi di estenuanti bombardamenti di psicofarmaci, che hanno un solo risultato: aprire la strada alla depressione.

Invece, dobbiamo riuscire a comprendere che l’anima è la parte più autentica e saggia di noi. Non sbaglia mai. E se fa arrivare dentro noi stessi la tristezza è per farci capire che stiamo facendo un percorso sbagliato, che il nostro essere si sta snaturando e che esistono delle alternative salvifiche ai modelli di oggi. Per questo dovremmo lasciare che il dolore si espanda. Perché, infondo, è come un parto, come la rottura delle acque che è presagio di nuova vita. Come una porta che si spalanca all’arrivo di un’energia creatrice, che ci rigenera. Come una benedizione che ci allontana dagli errori e ci regala un’altra possibilità per essere veramente noi stessi, nel mondo più vero.